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Gratia.
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Cantieri delle meraviglie: un’altra nave romana
di La nuova Sardegna - 10/12/2006
Dagli scavi sul lungomare una nuova importante scoperta archeologica
Gli esperti della Soprintendenza al lavoro nel tempio sepolto sotto il corso Umberto
OLBIA. Dai cantieri in fermento sul lungomare ancora una straordinaria scoperta archeologica: protetto dagli occhi ingordi dei passanti, il relitto di una nave romana. I resti del fasciame in legno si aggiungono all’altra sensazionale scoperta (un tempio) risalente ad appena qualche giorno fa. Nello scorso mese di ottobre, davanti al palazzo civico, avevano invece scoperto un’antica piazza lastricata e alcune botteghe artigiane. Un superlavoro per gli esperti coordinati dal direttore dello scavo, Giuseppe Pisanu, e dal responsabile della Soprintendenza archeologica Rubens D’Oriano.
Ci vuole un occhio allenato per capire che in mezzo a quella poltiglia fangosa si nasconde un legno di una nave romana. Ma gli archeologi della Soprintendenza conoscono con precisione quasi svizzera ciò che riposa sotto la città. Nel 2000, durante i lavori per la costruzione del tunnel, le unghie delle ruspe si erano inceppate proprie sui relitti delle navi romane che i Vandali, nel V secolo d.C., avevano prima bruciato e poi affondato.
Il sindaco Settimo Nizzi solo un mese fa era stato inconsapevole profeta del ritrovamento di questi giorni. Nell’incontro con i commercianti del centro storico aveva infatti pubblicamente rivelato il suo timore: trovare un’altra nave romana durante i lavori sul lungomare.
La più grande paura era legata allo scavo per la sistemazione di una vasca di contenimento delle acque del corso. E gli archeologi hanno trovato l’antico legno proprio dentro la voragine di sei metri per cinque che dovrà ospitare la grossa tinozza. Non è ancora chiaro quale parte dell’imbarcazione spunti dal terreno, per questo motivo la Soprintendenza tiene la bocca sigillata su ogni dettaglio, in attesa che il puzzle delle ipotesi si trasformi in certezza storica. Per i passanti è impossibile sbirciare dentro la buca davanti all’edicola sul lungomare; la recinzione del cantiere blinda il reperto dall’avida curiosità dei cittadini. Chi vuole vedere qualcosa deve spostarsi in corso Umberto, sul lato sinistro della strada. Qui gli operai della ditta Pama (l’impresa che si occupa del rifacimento della rete idrica e fognaria per conto del Comune) lavorano in coppia con gli archeologi su un altro scavo, quello nel quale sono emerse le fondamenta di un tempio romano.
Le ruspe procedono pian pianino il loro lavoro, spostano con grazia le pietre e la terra, si bloccano nel momento in cui gli occhi degli esperti intravedono porzioni di storia. Ieri è affiorata una nuova stanza dell’antico edificio, una scoperta che allunga la già straordinaria lista di ritrovamenti in quell’area: una pinzetta in bronzo e il frammento spezzato di una lucerna in terracotta al centro del quale è impressa una croce cristiana e la P di pax, pace. Brandelli di storia della città che un giorno potranno essere ammirati da tutti nelle teche del museo.
Tratto da:
http://www.archeologiasarda.com/leggi_news.asp?id=66
Riaffiorano le terme di Turris Libissonis
di Unione Sarda - 26/11/2006
Al profilo conosciuto della vecchia Turris Libissonis, la città che fa da fondamenta all′attuale Porto Torres si aggiunge in questi giorni un tassello importantissimo. Anche se i ritrovamenti di reperti in città sono all′ordine del giorno e quasi non fanno più notizia, l′ultima scoperta ha qualcosa di particolare perché è testimone di quel centro ricco di vita e snodo commerciale con il resto della Sardegna che passava tra la foce del fiume Mannu, le terme e il porto.
L′area nella quale sono stati rinvenuti i segni del glorioso passato di Turris è quella della Piccola, la zona che si estende tra il porto e la nuova stazione marittima. Le ruspe hanno tirato fuori i primi enormi blocchi di pietra lavorata durante la costruzione del mega parcheggio da 200 stalli che dovrebbero servire il centro storico e il futuro museo del mare.
A un controllo più accurato da parte della soprintendenza per i beni archeologici però non sono saltati fuori piccoli reperti, ma grandi strutture murarie che fanno pensare che ci si trova di fronte al perimetro delle ville costruite in prossimità delle terme Maetzke o al proseguimento delle stesse.
Non meno importanza viene data dal ritrovamento di alcuni tratti, lunghi alcuni metri, di pavimentazione costruita con larghi blocchi squadrati. Le direttrici che percorrono sono quelle dei classici Cardi e Decumani, le strade principali e più importanti per i traffici commerciali nel periodo della colonia romana.
Sarebbero risalenti al primo secolo infatti gran parte delle mura rinvenute. Anche se nella stratificazione potrebbero essere portati alla luce reperti di epoche diverse. Come di consueto per questo tipo di scavi sono venute alla luce anche delle sepolture, con il loro corredo di vasellame e quant′altro.
Adesso non resta che attendere come si potrà recuperare e rendere fruibile questa ennesima scoperta.
L′argomento è delicato data l′importanza del ritrovamento e del progetto di valorizzazione dell′area per il quale è previsto un finanziamento di 460 mila euro che si sta portando avanti.
Il parcheggio infatti sarebbe solo una delle funzioni che la zona potrebbe concedere alla città (resta da vedere ora se i lavori verranno interrotti) che necessita di un ampio piazzale pavimentato e con aree verdi da aggiungere al complesso di strutture che stanno sorgendo per dare vita al nuovo centro portuale turritano.
Tratto da:
http://www.archeologiasarda.com/leggi_news.asp?id=64
Oniferi - Necropoli depredata con lo scalpello
articolo qui:
http://www.archeologiasarda.com/leggi_news.asp?id=63
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anticheterre.
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ciao Grazia, salutino e incitamento vai alla grande!!!
A presto, Sly. -
Gratia.
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Ciao Sly....
io vado...poi quel che arriva, arriva!
Abbracci e grazie!
Grazia. -
Gratia.
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Il nuraghe fortificato di Capichera
Scritto da Junfan
martedì 16 gennaio 2007
Verranno riportate alla luce oltre 100 abitazioni dell'età della pietra protette dal nuraghe-fortezza della Prisgiona.
Una Costa Smeralda del XV secolo avanti Cristo che testimonia la vita in quel territorio di una comunità ricca e raffinata. L'idea di popolazioni rozze, armate di clava e vestite di pelli viene smentita da alcuni reperti. I nuragici erano eleganti e amanti del bello, centellinavano bevande raffinate e decotti, erano anche abili restauratori.
La prova arriva da alcuni vasi che sono stati riparati con delle graffette di piombo. L'amministrazione ha deciso di riportare alla luce l'antico villaggio e creare un parco archeologico. [...]. Il cantiere partirà entro la fine del mese e i lavori saranno supervisionati dalla responsabile scientifica della Soprintendenza, Angela Antona, che coordina il progetto. Dello staff incaricato della rinascita del villaggio fanno anche parte il dirigente del comune Libero Melonie il progettista Antonio Maria Azara. Per la prima fase è stato stanziato oltre un milione di euro per far riaffiorare tutta la città, ancora sepolta sotto la terra. Al lavoro di scavo è affiancato un laboratorio per il restauro dei reperti. [...] Spiega il sindaco Pasquale Ragnedda «Abbiamo scoperto uno dei villaggi più importanti della Sardegna. Ora lavoriamo per valorizzarlo. Vogliamo creare un percorso museale -archeologico che serva anche come richiamo per i turisti. Nel nostro territorio non ci sono solo spiagge, ma anche tante testimonianze della storia e della cultura dell'isola».
In un'area di quattro ettari si distende la metropoli tra il nuraghe della Prisgiona e la tomba dei giganti di Coddu Vecchju, che si trova 600 metri più in basso. Tra le capanne anche un forno che serviva per fabbricare vasi di ceramica. Accanto alla torre principale c'è la sala delle riunioni in cui si riunivano i capi del villaggio. Al centro dell'ambiente è stata ricavata una vasca scavata nella roccia. All'interno sono stati ritrovati contenitori di ceramica con decorazioni e forme originali. Il recinto sacro era il cuore dell'area in cui si recitavano riti religiosi. [...]. Vicino alla capanna delle riunioni si trova un pozzo profondo oltre otto metri, che serviva per dare l'acqua al villaggio. Ma questi sono solo i primi ritrovamenti di un'area ancora tutta da scoprire.
Di Luca Rojch. Da “La Nuova Sardegna” GA del 14 gennaio 2007, Pag 26.
http://www.contusu.it/index.php?option=com...id=330&Itemid=2
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Gratia.
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Le pagine di Archeologia Sarda in Pdf:
http://www.archeologiasarda.com/pdf_version.asp
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Gratia.
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Gli studiosi fanno rotta sui porti nuragici: aperti nuovi orizzonti
L'ARCHEOLOGIA NELL'ISOLA
Gli studiosi fanno rotta sui porti nuragici: aperti nuovi orizzonti
Pier Giorgio Pinna
Arrivano conferme: i costruttori di torri erano anche un popolo di
navigatori.
Prove, indizi e tante ipotesi
Alghero Un nuraghe sovrasta la baia riparata dai venti dominanti: acque
profonde, tranquille, con uno o più approdi sicuri. Vicino alla
spiaggia capanne di pescatori. Non lontano muri e costruzioni per custodire
bestiame, cibo, sale, selvaggina. E, ancora, depositi ricchi di
ossidiana, ferro, argento: tutti prodotti smerciabili al di là del mare. Appena
oltre, alla fonda o in secca, qualche grossa imbarcazione (pensate,
fatte le debite proporzioni, alle navicelle di tre millenni fa trovate in
aree archeologiche della Sardegna). Tutt’attorno, strade di terra
battuta. Portano all’interno. Verso villaggi accoglienti e difendibili.
È questa, con inevitabili approssimazioni, la ricostruzione
presumibile dei porti costruiti dai nuragici tra il 17º e il 9º secolo prima di
Cristo. Una ricostruzione valida per tanti dei quasi duemila chilometri
di litorale: dall’attuale Porto Conte sino a Carloforte, da Cala Gonone
alle rade della Gallura e dell’Ogliastra. Un mondo in larga misura
inesplorato, quello degli scali realizzati dai costruttori di torri. Ma che
adesso, grazie a nuove ricerche intraprese da diversi specialisti,
potrebbe riservare meravigliose sorprese. Il perché è presto detto: indizi
e prove crescono settimana dopo settimana.
Intanto, qualche dato per comprendere meglio il fenomeno. Gli oltre
settemila nuraghi giunti sino a noi erano in origine di più, qualcuno
sostiene addirittura il doppio. Molti, mai censiti, si trovano ancora
celati sotto terra. Tantissimi altri sono andati distrutti. In ogni caso,
parecchie centinaia di costruzioni superstiti appaiono oggi collocate di
fronte al mare. A picco o su versanti scoscesi. Quasi a dominare
l’orizzonte. Va inoltre ricordata una novità recentissima: durante un
convegno scientifico internazionale tenuto a Siviglia il professor Giampiero
Pianu ha svolto sul tema una relazione particolarmente dettagliata,
accolta dai suoi colleghi con grande favore. Il docente insegna Metodologia
della ricerca archeologica nell’ateneo sassarese. «Con l’intervento sui
porti nuragici ho inteso lanciare il classico sasso nello stagno -
spiega adesso con convinzione - Ma ora sono pronto a intraprendere una
mappatura dettagliata lungo i nostri litorali. E a studiare
l’intera problematica. Anzi, in qualche caso per conto dell’ateneo ho
già preso contatti in questo senso con la Sovrintendenza».
Si parla di vasti traffici già in un’epoca che precede l’arrivo dei
Fenici. Le stesse navicelle nuragiche, votive o meno, sono testimonianza
di familiarità col mare. Vengono esaminate le potenzialità di miniere e
saline sarde in chiave commerciale già 3000-3500 anni fa. Fioriscono
analisi che su questi argomenti legano storia e archeologia. Tra i libri,
i saggi del comandante della marina mercantile Giacomo Pisu sulla
flotta Shardana e altri tentativi di ricerca più o meno convincenti.
Comunque destinati a suscitare interesse. E, soprattutto, a sollevare il velo
d’ombre che per troppo tempo ha ricoperto l’intera questione.
Individuati gli obiettivi, le nuove indagini porteranno altra luce. Nel
frattempo è possibile parlare di una serie di scali dal fascino misterioso in
punti chiave della costa. Alcuni già studiati. Altri da esaminare a
fondo. Tra i primi, c’è Cala Ostina, a est di Castelsardo. Spiega in
proposito il docente Paolo Melis, che ha pubblicato un saggio sul
caso: «L’insenatura ci offre un esempio d’approdo di sicuro utilizzato
da genti nuragiche e assurto, probabilmente sullo scorcio dell’Età del
bronzo, a scalo marittimo di una certa importanza. Le evidenze
archeologiche mostrano inoltre come il potenziamento, seppur limitato a modeste
installazioni e alla realizzazione della strada d’accesso, avvenne in
epoca romana e non prima, in apparenza senza soluzioni di continuità
rispetto al precedente scalo gestito dagli indigeni». Sulla stessa
falsariga si può ipotizzare altrove il riuso di strutture d’epoca precedente
da parte di Euboici, Micenei, Punici, Romani. A Tharros come a Nora. A
Bithia come sull’odierna costa dorgalese. Il punto dolente è che, mentre
sono stati rinvenuti i resti d’imbarcazioni costruite fra i 2500 e e i
1500 anni fa, mai è stato scoperto uno scafo nuragico.
Eppure è impossibile pensare che le tribù dei costruttori di torri non
sapessero navigare. Ci sono anzi altre prove del contrario. In diverse
aree della Sardegna sono state trovate specie animali e vegetali
assenti prima del Neolitico: i nuovi «coloni» non possono essere arrivati
certo via terra. È poi un fatto che l’ossidiana, oro nero degli antichi,
sia stata esportata così massicciamente da far escludere il ricorso a
soli mercanti stranieri. L’ennesimo esempio di export remotissimo? Il
rame di Calabona, vicino ad Alghero, forse usato per modellare la Lupa
capitolina. A Creta, inoltre, sono venute alla luce ceramiche simili a
quelle del nuraghe Palmavera. Tutti segnali chiari di un intenso traffico
nelle due direzioni: da e per la Sardegna, direbbe oggi con linguaggio
tipico qualche amministratore di una compagnia di navigazione.
(08 febbraio 2007)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio-lo...zonti/1503349/6
Altro articolo qui:
http://www.regione.sardegna.it/documenti/1...70208095816.pdf. -
Gratia.
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Tv: Sardegna Archeologica e Mineraria a 'Pianeta Mare'
ADN Kronos - Ven 23 Feb
Roma, 23 feb . (Adnkronos) - La Sardegna archeologica e mineraria sara' protagonista a ''Pianeta Mare'', il programma di Marco Campione condotto da Tessa Gelisio, realizzato in collaborazione con il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, in onda domenica alle 11.00 su Retequattro.
Tessa Gelisio andra' alla ricerca di alcuni siti archeologici: il primo sara' quello di Tharros, nel Golfo di Oristano. Poi sara' la volta di Antas, la citta' dei Shardana, un antichissimo popolo di navigatori sardi. E' la prima volta che si parla di questo sito in televisione poiche' e' stato appena scoperto dall'archeologo Leonardo Melis che accompagnera' la conduttrice in questa visita esclusiva.
Seguira' l'esplorazione della Grotta dei Cervi, presso l'area marina protetta di Capo Caccia. Qui e' stato ritrovato un giacimento fossile di cervi sardi, ormai estinti, che popolarono la zona tra 120 e 70 mila anni fa. Il viaggio di Pianeta mare continuera' con la visita all'unica miniera di carbone ancora attiva in Sardegna, nella zona del Sulcis. Ricordando lo stretto legame tra il mare e il carbone - per molto tempo cuore propulsivo delle navi che solcavano i mari - Tessa scendera' nelle profondita' terrestri a meno 400 metri e, attraversera' con un trenino le buie gallerie della miniera, per assiste all'estrazione, al trasporto e allo smistamento del carbone. (segue)
(Rre/Gs/Adnkronos)
http://it.news. yahoo.com/ 23022007/ 201/tv-sardegna- archeologica- mineraria- pianeta-mare. html
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ShemsuHor.
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CITAZIONE (Gratia @ 24/2/2007, 10:11)Tessa Gelisio andra' alla ricerca di alcuni siti archeologici: il primo sara' quello di Tharros, nel Golfo di Oristano. Poi sara' la volta di Antas, la citta' dei Shardana, un antichissimo popolo di navigatori sardi. E' la prima volta che si parla di questo sito in televisione poiche' e' stato appena scoperto dall'archeologo Leonardo Melis che accompagnera' la conduttrice in questa visita esclusiva.
Dovevano scrivere archeocattivo
Bella Leo!!!!
Domani me lo gusto...
Andrea
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Gratia.
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Torna alla luce l’Alghero del passato
Reperti, strade e mura ritornano alla luce attraverso gli interventi di
archeologia urbana: sabato sera al Caval Marì l’archeologo Marco
Milanese presenterà i risultati degli scavi cittadini degli ultimi anni
ALGHERO – Una città invisibile, sotto la strada che calpestiamo tutti
i giorni. È questo il risultato dei ritrovamenti che negli ultimi due
anni hanno visto tornare alla luce diverse testimonianze inedite sul
passato di Alghero.
Durante gli interventi di riqualificazione urbanistica approntati
dal Comune, con la posa in opera di nuove condotte idriche e fognarie,
sono stati infatti rinvenuti reperti, tratti di antiche strade e resti di
mura. Dato il carattere peculiare della Riviera del Corallo, che ancora
conserva nel sottosuolo documenti archeologici di grande valore
storico, gli interventi pubblici sono da tempo seguiti da esperti archeologi
che accompagnano gli sviluppi intervenendo a ogni emergenze. Quanto
riportato alla luce durante i lavori degli ultimi anni sarà esposto dal
prof. Marco Milanese in una conferenza organizzata dall'associazione
Tholos dal titolo “La città invisibile, nuovi dati sulle fortificazioni di
Alghero, ritrovamenti urbani 2004-2006”, che si terrà sabato 3 marzo,
alle 18:30 presso i locali del Caval Marì. Milanese, docente di
Archeologia presso la Facoltà di Architettura di Alghero, da anni dirige gli
scavi di archeologia urbana in città con diversi interventi, tra i
quali gli scavi nel quartiere ebraico che hanno arricchito di
importanti dati storici le fonti archivistiche già in possesso degli studiosi.
La conferenza, indirizzata anche ai non addetti ai lavori, presenterà
le nuove acquisizioni sulla storia della città alla luce dei lavori di
archeologia urbana. La relazione dell'archeologo sarà arricchita dalla
proiezione di immagini sugli scavi effettuati in piazza Sulis, dove è
venuto alla luce l'Esperò Reyal; nel cortile della ex caserma dei
Carabinieri, dove è emerso un tratto di strada con l'acciottolato ancora ben
conservato; nel Forte della Maddalena e, ancor più recente, a pochi
passi dalla Torre di Porta terra, dove è stata ritrovata, ancora intatta,
l'arcata del ponte del Fos gran, la cui esistenza è testimoniata da
alcuni acquerelli ottocenteschi. L'occasione consentirà agli algheresi di
conoscere aspetti della storia della città ancora inediti e potrà
costituire una sicuro risarcimento per i disagi che i recenti
interventi pubblici hanno spesso creato.
Nella foto gli scavi all'interno della chiesa di Santa Chiara
http://www.alguer.it/notizie/alghero/11014...lghero_passato/
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Gratia.
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I quattro mori di Sardegna
Scritto da Alessandra Mulas
Wednesday 28 March 2007
La bandiera dei Quattro Mori è oggi il simbolo del popolo Sardo. Gli abitanti dell’Isola la portano ovunque, con la fierezza che li contraddistingue, non per desiderio di protagonismo ma per quel forte senso di appartenenza ad una identità che per storia, posizione geografica, cultura, lingua è diversa dal resto dell’Italia. L’attaccamento alla nostra bandiera non oscura l’importanza del tricolore, ma alle volte, forse, si ha la necessità di mostrare le proprie origini.
Ritengo che più la globalizzazione cerchi di regnare sovrana, più ci si rende conto che non sarà mai l’essere tutti uguali ad aprirci al futuro ma il riconoscimento e il rispetto di tutte le nostre diversità. L’art. 1 della Legge Regionale 15 aprile 1999, n. 10 cita “La Regione adotta quale sua bandiera quella tradizionale della Sardegna: campo bianco crociato di rosso con in ciascun quarto una testa di moro bendata sulla fronte rivolta in direzione opposta all'inferitura”. Le origini sono lontane ma non provengono direttamente dalla storia sarda, tanto è che non sono rare le discussioni in merito. I mori sono stranieri e legano questo simbolo alla schiavitù catalana-aragonese e piemontese. La bandiera rappresenta l’immagine di un popolo, alla quale ci si identifica e qualcuno sostiene che quella della Sardegna sia “l’Albero deradicato” che ha le sue radici nel periodo giudicale; questa bandiera sventolava in tutta L’Isola “per vivere non traeva alimento da nessun potere se non da quello del popolo sardo”. Devo ammettere che io sono affezionata ai “quattro Mori”, ma una bandiera che emerge dalla nostra storia di lotta per l’indipendenza non andrebbe sottovalutata.Ma da dove derivano i Quattro Mori? La prima apparizione storica del simbolo risale a Pietro il Grande; la tradizione iberica la riporterebbe ad una leggenda secondo la quale San Giorgio intervenne in favore degli Aragonesi, armato di uno scudo bianco crociato di rosso, nella battaglia di Alcoraz del 1096. I Quattro Mori riportati sul vessillo non sono altro che le quattro teste di re arabi con turbante tempestato di gemme caduti durante la battaglia. La tradizione sarda, che molto probabilmente si rifà alla tradizione degli aragonesi, narra che il papa Benedetto VII conferì ai Pisani, che combattevano a Museto i Saraceni, un gonfalone rosso crociato di bianco con quattro teste di moro sugli angoli, per esorcizzare la conquista della Sardegna, ma soprattutto per salvaguardare i propri interessi verso una terra ricca di miniere. Nel XIV secolo l’emblema, associato ad altri simboli della confederazione della Corona di Aragona comparve nello “Stemmario di Gerle”, un Codice che ancora oggi è conservato a Bruxelles. Sul manoscritto era riportato il disegno della Croce di San Giorgio rossa su campo bianco dove erano raffigurati i Quattro Mori. Furono gli Aragonesi che nel 1297 imposero questo vessillo al Regno di Sardegna e di Corsica dopo essere stati infeudati dal papa Bonifacio VIII.La prima testimonianza relativa all’uso del simbolo risale al 1516, durante le onoranze funebri del re Ferdinando il Cattolico dove sfilò un cavallo con lo scudo dei Quattro Mori, mentre il Capitolo di Corte degli Stamenti militari di Sardegna risalente al 1571 è il primo documento ufficiale sardo che riporta il simbolo.Dal Settecento in poi le immagini raffiguravano i Mori con la benda posta sugli occhi e rappresentavano il simbolo dell’Isola furono inserite anche nello stendardo dei Savoia, quando divennero re di Sardegna nel 1720, alla quale aggiunsero “l’Aquila sabauda portante una Croce Bianca in Campo Rosso bordato di Azzurro”. Carlo Alberto nel 1842 adotta il tricolore come bandiera del Regno, così Quattro Mori furono usati nei vessilli dei corpi militari. La brigata Sassari, Costituita nel 1915 con personale esclusivamente reclutato in Sardegna e che combattè nella Prima Guerra Mondiale con un tale accanimento da essere temuta dal nemico al pari delle unità degli Arditi, adottò i Quattro Mori sullo stemma già dalla sua istituzione. Lo stemma dei Quattro mori ricomparve nel 1921 quando venne fondato il Partito Sardo d’Azione. Nel 1950 divenne l’emblema della Regione Autonoma della Sardegna per voto dei componenti del Consiglio Regionale e il 5 luglio del 1952 il Presidente della Repubblica Italiana sanciva come simbolo della Regione “uno stemma d’argento alla croce di rosso accantonata da quattro teste di moro bendate”. Le bende dei Mori coprivano gli occhi, la provenienza della cecità risale, con ogni probabilità, al periodo sabaudo e ancora oggi è oscura la verità su questo aspetto; si presume derivi da un errore dei disegnatori … o come invece ci vien da pensare per malizia della casa regnante che voleva i suoi sudditi sottoposti e ciechi. Solo con quella Legge Regionale 15 aprile 1999 n. 10, sopra citata, i Quattro Mori si riscattano da quella antica onta piemontese voltano la testa e la benda tornò a posizionarsi sulla fronte, secondo l’antico segno di regalità.Voglio solo aggiungere con un pizzico di campanilismo che vi è un’altra ipotesi sull’origine dello stemma, forse circondata da un velo di mistero che la rende affascinante, ma che vale la pena citare in chiusura di questo breve percorso storico della bandiera Sarda. Si tratta di quella per la quale lo stemma avrebbe addirittura origini templari, quando Ugo di Payns uno dei fondatori e primo maestro dell’ordine fece suo il blasone prima del 1129 data che dovrebbe coincidere con l'istituzione della "Nuova milizia del Tempio". Quanti misteri ancora potrebbe nascondere questa terra antica legata al mito di Atlantide.
http://www.iniziativa.info/index.php?optio...=1829&Itemid=32
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La tradizione degli ottomila nuraghi i simboli indelebili della Sardegna
http://www.ilmeridiano.info/articolo.php?Rif=9204. -
Gratia.
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La Lupa simbolo di Roma è Sarda!
Scritto da Junfan
In un articolo della Nuova Sardegna di Lunedì 5 marzo 2007, viene riportata l’ipotesi, che non è nuova, avanzata in un convegno di archeologi in cui si dice che la famosa Lupa capitolina probabilmente è giunta a Roma dalla Sardegna.
“La lupa è sarda?”
Così ieri il domenicale del sole 24 Ore titolava la notizia che la lupa capitolina potrebbe avere un’origine isolana. L’ipotesi, che non è del tutto nuova, è stata avanzata a Roma durante un convegno di archeologi.
La paternità è dell’estruscologo Giovanni Colonna, secondo il quale i motivi orientaleggianti della celebre scultura sono tipici del mondo punico-sardo e la lupa va collocata nell’ambiente culturale etrusco-laziale del VI-V secolo a.C.
I dati raccolti da Colonna dicono anche che il rame di cui è fatta la lupa proviene dall’antica miniera di Calabona ad Alghero. Questo è almeno il risultato delle analisi del rapporto isotopico del piombo legato al rame della lupa, eseguite nei laboratori di Oxford e presente al convegno romano dell’archeometallurgo Claudio Giardino. La miniera di Calabona era nota sia ai Fenici che ai Cartaginesi. Secondo Giardino, quindi, non si può escludere che i sardopunici abbiano fornito a Roma il metallo per forgiare la lupa.
Forse anche l’artista? Questo è più difficile da stabilire. Anche perché, secondo alcuni studiosi, la datazione della scultura sarebbe ben altra. Per Anna Maria Carubba, che ha curato il restauro della lupa, la statua avrebbe origini medievali. La Carubba prova a dimostrare questa sua tesi in un libro che è appena stampato: “La lupa capitolina, un bronzo medievale”.
http://www.contusu.it/index.php?option=com...id=361&Itemid=1
S'Accabadora su Il Foglio
Scritto da Junfan giovedì 29 marzo 2007
Sul giornale "Il Foglio" di giovedì 15 Marzo, era presente un
articolo sulla nostra Accabadora. Lo riportiamo in quanto presenta degli
aspetti relativi a questa inquietante figura a noi sconosciuti.
Buona lettura.
L'accabadora
E' la donna che nella tradizione sarda abbraccia per ultima il
moribondo (e lo uccide)
Leggete e abbiate un pò di pazienza, tra qualche riga chiarisco tutto:
"La donna si accovacciava dietro al capezzale e stringeva la testa del
morente tra le sue gambe. Lo accarezzava e
cominciava a cullarlo come fosse un bambino. Gli cantava la stessa
ninna nanna che lui si sarà sentito cantare
dalla propria madre"
Oppure:
"La porta si apre e il moribondo dal suo letto d'agonia vede entrare la
femmina accabadora. E' vestita di nero e
una delle sue gonne è sollevata a coprirle il viso. E' arrivata l'ora.
Lui da quel momento sa che l'abbraccio che avrà
da quella donna sarà l'ultimo della sua vita.
In un altro referto documentario, al posto della accabadora troviamo la
attittadora, l'allattatrice. Costei porge le
-titte-, ma non ai pargoli, anche lei -allatta- un morente.
Di cosa stiamo parlando? Chi è l'accabadora?
Cosa stanno facendo, le donne che si accovacciano dietro il capezzale
del morente, lo accarezzano, lo
abbracciano, l'allattano?.
Come spuntano queste misteriose figure femminili? Diciamo subito che
sono figure esistenti o comunque esistite,
ben note al folklore della Sardegna: alla sua preistoria, cioè, ma una
preistoria che si insinua fino alla metà del
secolo scorso. Potrebbero essere, più o meno, nostre nonne. E perché è
interessante rievocarne il ricordo? In
un'epoca come la nostra, ansiosa di certezze e di radici in cui trovare
la forza con cui opporsi alla dilagante,
eversiva modernità prona ai miti e riti della tecnica devastatrice, è
ben più che una tentazione affidarsi alla linfa che
sale su dall'humus delle rassicuranti tradizioni:
Tornare alle radici!.
Come nelle tribù degli indiani
Consentite dunque anche a me di evocare una antica, mitica tradizione
sarda.
Il nome accabadora viene probabilmente dallo spagnolo -acabar-,
terminare; una ascendenza può rinviare al sardo
-accabaddare-, che significa -incrociare le mani al morto-, o ancora
-mettere a cavallo-, e quindi -far partire-. Ora,
sicuramente, avrete capito di cosa stiamo parlando. Sì, l'accabadora
era la donna che, su commissione della
famiglia, uccideva il morente, il malato irrecuperabile, forse anche il
vecchio divenuto un peso per la povera casa
(un pò come presso certe tribù di indiani del Nordamerica, che usavano
abbandonare fuori dell'accampamento,
esponendolo così a morte sicura, il vecchio incapace di provvedere a se
stesso).
In sostanza, era colei che pietosamente esercitava la pratica
dell'eutanasia nella civiltà patriarcale, familiare, di
Sardegna.
Le tecniche usate dall'accabadora erano varie, tutte eseguite con molta
perizia, perché quelle donne erano
-praticas-, conoscevano perfettamente l'anatomia, non sbagliavano, sia
soffocando, sia strangolando il destinato,
sia anche spaccandogli il cranio o l'osso del collo. Per quest'ultimo
metodo poteva essere usato un giogo di
buoi, un -giuale- fatto passare lentamente sul corpo disteso fino ad
arrivare sul collo o sulla testa, dove veniva premuto così da provocare
la morte immediata. In altre zone dell'isola si usava uno speciale
mazzuolo (su
mazzolu). Quello - forse l'unico rimasto- conservato nel museo
etnografico di Luras, venne rintracciato nel 1981 in casa di una superstite
-accabadora-.
Oggi è esposto in un diorama che rappresenta una tipica casa gallurese.
E' riprodotto in un ciondolo d'argento,
richiestissimo dalle visitatrici del museo, che lo appendono sul seno
quale scherzoso ammonimento contro i
tradimenti dei loro uomini. A Desulo vive ancora un proverbio:
-Canno lompia est s'ora, benit s'accabadora- quando il tempo è
compiuto, viene l'accabadora. Parleremo ancora delle tradizioni del tempo
antico come di
familiari certezze, di una solida barriera contro le tecnologie del
nostro mondo dissacrato, laicizzato? Ma suvvia,
dirà qualcuno, anche la tradizione va selezionata, radice per radice.
Ahimè, nel momento in cui la selezioni, la
tradizione non è più tale, con la sua aura, la sua sacralità
rassicurante.
Si è anch'essa laicizzata.
Angiolo Bandinelli
http://www.contusu.it/index.php?option=com...id=364&Itemid=1
. -
Gratia.
User deleted
Il mito di Adone e la tradizione di "Su Nenniri"
Tratto da:
http://www.contusu.it/index.php?option=com...id=365&Itemid=1
Scritto da Junfan
martedì 03 aprile 2007
C’è un vecchio mito, che si può trovare in tutti i paesi affacciati
sul Mar Mediterraneo. E’ una storia che narra dell’amore di una dea per
un bellissimo giovane dio, e del dolore che questo amore scatena quando
il dio muore. I protagonisti hanno tanti nomi quanti sono i paesi che
conoscono questa storia: Afrodite e Adone in Grecia, Iside e Osiride in
Egitto, Tammuz e Astarte a Babilonia, e molti altri ancora. Il mito di
Adone ha inizio da una relazione incestuosa tra Mirra e suo padre Teia.
Spinta da Afrodite, dea dell’amore, Mirra seduce suo padre con
l’inganno, e nel buio della sua stanza consuma il loro incesto. Ma la luce di
una lampada ad olio rivela l’identità di Mirra, e Teia, su tutte le
furie, insegue la figlia con un coltello per ucciderla. Come accade in
molti altri miti simili, nel corso della fuga interviene la divinità; in
questo caso la stessa Afrodite trasforma Mirra nell’albero che porta il
suo nome. Da una fenditura della corteccia nasce Adone, dio
della vegetazione, così bello da causare gli interessi sia di Afrodite
che di Persefone. Per proteggerlo infatti Afrodite lo chiuse in uno
scrigno che affidò alla dea; ma Persefone, incantata dalla sua bellezza,
non lo volle dare indietro. Con l’intervento di Zeus le due dee, l’una
della fertilità primaverile, e l’altra del mondo sotterraneo, si mettono
d’accordo in questo modo: Adone avrebbe passato quattro mesi dell’anno
con Afrodite, quattro con Persefone, e altri quattro con chi lui
preferiva. Tuttavia la scelta del giovane dio ricadeva sempre su Afrodite. Un
anno, sul finire dell’estate, il giovane Adone uscito a caccia viene
ucciso da un animale selvatico (un cinghiale, o un orso), secondo alcune
versioni mandato da divinità gelose della sua bellezza. Afrodite piange
sul corpo del suo amato Adone, ma la vita lo ha già abbandonato: dalle
gocce del suo sangue nacque l’anemone. Il significato del mito è
limpido. Adone è il dio della vegetazione, della natura rigogliosa
che sboccia in primavera e muore a fine estate: come il seme, dovrà
trascorrere lunghi mesi bui e freddi sottoterra, per poi rinascere al
primo sole.
Il culto di Adone consisteva, in Grecia come in Asia Minore, nella
rappresentazione rituale del mito di cui è protagonista. I sacerdoti
mettevano in scena il suo matrimonio con la Dea Madre, che veniva
accompagnato dalle celebrazioni della cittadinanza; in particolare erano le donne
che erano molto legate al suo culto, ed erano loro le “interpreti” più
importanti del rituale. Veniva quindi rappresentata la morte del dio, a
cui seguivano i lamenti e i pianti delle donne:
un particolare tipo di rituale consisteva nella realizzazione dei
“giardini di Adone”, vasi pieni di germogli di cereali e ortaggi che
crescevano e appassivano molto velocemente, simboleggiando la vita del dio. Le
donne piangevano la morte di Adone tenendo in mano i vasi di piante
appassite; per permettere la sua resurrezione i vasi venivano quindi
rovesciati nei fiumi e nelle sorgenti.
Fare “su Nenniri” è una tradizione molto diffusa un po’ in tutta la
Sardegna, e in parole povere si può descrivere nella realizzazione di un
vasetto di germogli, proprio come i giardini di Adone.
Tradizionalmente, si utilizza il grano, misto a orzo e semi di lino;
tuttavia al giorno d’oggi su Nenniri viene preparato con qualunque seme
si abbia sottomano. Circa tre settimane prima della ricorrenza per cui
lo si prepara, i semi vengono posti in un piccolo recipiente pieno di
terra, che verrà innaffiato molto di frequente; questo viene poi
conservato in un luogo buio, in modo tale che i germogli, privati della luce,
crescano di un verde-giallo chiaro e molto brillante. Quando è pronto,
su Nenniri viene utilizzato per vari scopi; a Cagliari assume
un’importanza particolare per la Pasqua, quando, simbolo di una primavera ormai
nel pieno delle forze, viene regalato a parenti e amici come buon
augurio di serenità e fecondità (ormai perlopiù in senso finanziario, ma un
tempo il significato era … un tantino più letterale). Su Nenniri
ricevuto in dono si pone come centrotavola per il pranzo di Pasqua. Altrove,
il grano veniva seminato a fine maggio per essere esposto per
San Giovanni, e quindi raccolto per utilizzare i poteri magici che ha
acquisito. Come Adone, nasce in primavera e muore al solstizio
d’estate.
Ma in relazione al mito di Adone ha una importanza particolare il
rituale che fino a poco tempo fa veniva eseguito a Samugheo, piccolo paese
della provincia di Oristano. Il mito del dio viene rappresentato dalle
giovani del paese, che celebrano prima il suo matrimonio con di una di
loro, eletta prioressa, quindi piangono la sua morte, e infine
festeggiano la sua resurrezione. Le ragazze di ogni rione del paese sceglievano
una di loro per preparare su Nenniri in modo
tale che questo potesse essere pronto per la festa dell’Assunta. La
mattina del 15 su Nenniri
viene adornato con stoffe preziose e carta colorata, e la sua
realizzatrice diventa per così dire “capo cerimoniere”. Vestita del costume
tradizionale da sposa, la fanciulla portava in giro per il paese su
Nenniri, seguita da un corteo di compaesani, anch’essi in costume. Giunto il
corteo presso un precipizio, su Nenniri veniva spogliato dei suoi
ornamenti e rovesciato nell’abisso. A questo punto la “sposa” inizia i
lamenti funebri, e con le sue amiche piange e intona “is frores de mortu”, i
versi dedicati ai morti.
“Nennere meu ollu,
nontesta crocas solu,
ca non ch’est s’amorada,
nennere iscartinadu!”
“Coro, nennere meu,
nennere meu ollu!”
“Andada seo a s’ortu,
e a biere a casteddu,
ca est nennere mortu,
pranghide, fedigheddu!
Intrada seu a ortu,
a tirare arenada,
nennere meu ollu,
mancau est a s’amorada!”
Traduzioni
“Nenniri mio perito, stanotte dormi solo, non c’è la tua sposa, nenniri
strappato dal cesto!”
“Nenniri cuore mio, nenniri mio perito!”
“Sono andata nell’orto, e a bere al castello, perché nenniri è morto,
piangete, fanciulle e fanciulli! Sono andata nell’orto, a cogliere
melagrane, nenniri mio perito, sei mancato alla tua sposa!”
La processione si reca quindi in chiesa ad ascoltare la messa; le
ragazze che hanno celebrato il funerale di Nenniri-Adone tornano a casa a
festeggiare, e infine nel pomeriggio parte la processione dell’Assunta.
Ovviamente questa è una cristianizzazione tardiva del culto della
fertilità; il rituale è però rimasto pressoché invariato fino agli anni 50,
anni in cui la tradizione è decaduta. Resta però innegabile la
sopravvivenza di uno dei più antichi dei pagani e dei suoi rituali fino ai tempi
moderni, segno che il sentire di un popolo difficilmente si cambia, e
che il richiamo della terra è spesso più forte di qualunque cosa possa
venire insegnata.
Frores de mortu e loro traduzioni tratti da Dolores Turchi, “Samugheo”.
Tratto dal sito http://www.stregoneria.cc
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Su Pan'ispeli, l'antico pane di ghiande
Tratto da:
http://www.contusu.it/index.php?option=com...=1&limitstart=0
Scritto da Junfan
martedì 03 aprile 2007
Riproponiamo a voi lettori un vecchio articolo sul pane di ghiande,
Su Pan'ispeli.
Prendiamo spunto dagli amici del sito Antichi Cammini, che hanno
pubblicato una serie di fotografie sulla preparazione di questo antico
alimento.. buona lettura e buona visione...
Su Pan'ispeli viene nominato da Plinio il Vecchio nel I secolo D.C,
descrivendolo come un pane di ghiande impastato con argilla del quale si
nutrivano i Sardi.
Il pane di ghiande era utilizzato per buona parte dell'anno e veniva
preparato scegliendo la quantità necessaria di ghiande ben mature, le
quali venivano sbucciate e si ponevano a cuocere in una specie di
lisciva, ottenuta filtrando l'acqua di cottura attraverso uno strato di
argilla speciale, ricca di ferro, e di cenere di alcune erbe aromatiche. La
cenere serviva a togliere l'aspro e l'amaro del tannino delle ghiande,
e l'argilla dava il glutine necessario a legare l'impasto.
Entrambe questi ingredienti contribuivano a render più gustoso e
digeribile il pan'ispeli.
Quando le ghiande, per effetto della cottura, raggiungevano la
consistenza della polenta, assumendo quasi il colore del cioccolato, si
stendevano su tavole a rassodare, per poi venir tagliate a fette o a pani.
Seccato al sole o al forno, il pan'ispeli veniva quindi consumato come un
pane qualsiasi, col solito companatico nostrano, formaggio, lardo ecc.
Paolo Mantegazza scrisse: "Il pane di ghiande deve rimandarsi ad usi
e popoli antichissimi, forse ai primi abitatori della Sardegna".
Vittorio Angius affermò che "Le donne di Baunei ne portano in altri
paesi e lo vendono più caro che se fosse di farina scelta. Se ne manda in
dono e si pregia come una cosa singolare...".
Osvaldo Baldacci scrisse: "Fin dal 1938, durante imiei viaggi
nell'Ogliastra potei constatare che il pane di ghiande non rientra più nel
regime alimentare quotidiano, ma che persiste tuttora come singolarità
tradizionale nella mensa di persone povere e facoltose durante le festività
paesane".
Lello Fadda ha riportato, nel suo bellissimo articolo "Geofagia in
Sardegna", la descrizione dettagliata di un vero e proprio cerimoniale a
sfondo religioso effettuato nel Marzo del 1957 a Baunei.
Secondo lo studio effettuato da Angelino Usai riportato nel suo libro
"Baunei", il pane di ghiande sopravvive in Ogliastra ma l'usanza era
tradizione della Barbagia e di altre zone della Sardegna nel quale aveva
nomi differenti: panispeli, lande cottu (Baunei e Triei), lande kin
abba e ludu orrubiu (Talana e Urzulei).
Tale abitudine alimentare è stata messa in relazione con antiche
forme di Geofagia.
La geofagia ha radici antichissime. Platone consigliava alle donne
incinta di ingerire argilla come ricostituente, i romani invece, la
impastavano con sangue di capra e ne facevano dei biscotti medicinali.
I tedeschi e gli scandinavi, fino ad un secolo fa, la impiegavano per
la panificazione, proprio come fanno tuttora gli aborigeni australiani.
Nei mercati dell’Africa Centrale viene invece venduta come digestivo e
cura contro la dissenteria.
Ricca di minerali come ferro, magnesio e zinco, l’argilla, in piccole
dosi, purifica l’organismo e lenisce i disturbi intestinali. Non a caso
è uno degli ingredienti principali del Maalox, noto farmaco
anti-acidità.
Fadda nel suo articolo scrive che una indagine della Reale Società
Agraria ed Economica di Cagliari non ha considerato l'uso del pane di
ghiande come geofagia ma ne ha attribuito l'utilizzo alla povertà della
popolazione dell'interno dell'isola. Fadda non pensa che l'uso del
pan'ispeli fosse da ricercare solo nella povertà del popolo ma affianca a
questa antica tradizione un significato magico e rituale molto interessante.
Come per altri rituali legati alla cultura agropastorale sarda, anche
in questo caso certi significati sacrali e simbolici si sono persi,
anche se l'uso è continuato nel tempo e si sono tramandati solo i modi e le
forme. I veri significati, per essere raggiungibili, devono essere
esaminati alla luce della cultura e della religiosità degli antichi Sardi.
Fadda mette in rilievo due punti principali che determinano le
origini arcaiche dell'usanza del pane di ghiande e dimostrano che in origine
era un pasto sacro che esprimeva valori fondamentali.
Innanzitutto la pasta veniva mischiata con argilla rossa, inoltre,
l'argilla veniva prelevata, come in Grecia, generalmente in caverne e
probabilmente veniva raccolta nel periodo della luna crescente, in quanto si
pensava avesse maggiori proprietà curative rispetto al periodo di luna
calante.
Il rosso è legato al principio della vita, specialmente il "rosso
notturno", femminile, cupo e entripeto, colore del fuoco centrale e della
terra, in cui si opera la rigenerazione dell'essere.
La terra rossa può così simboleggiare il sangue della Dea Madre
fondamento culturale delle prime società sarde.
La caverna, poi, è presente in tutti i miti di origine e rinascita: è
archetipo dell'utero della Grande Madre, perciò, tutto ciò che si trova
nella terra è considerato vivente.
La caverna era considerata anche un ricettacolo di energie e questa
forza tellurica doveva impregnare l'argilla che vi si trovava così da
poter comunicare la forza vitale.
L'argilla trasformata in pane e mangiata come una vera divinità
assicurava la salvazione. Mangiare quel "pane di potenza" significava
trasformarlo e nello stesso tempo essere trasformati da una vasta ed unica
energia.
Attraverso il pasto sacro l'uomo si identificava con la vita stessa
della Terra Madre e quindi con l'intima forma della vita.
L'uso di consumare sacralmente il pane come corpo del dio era
certamente praticato nella Sardegna antica; forse in origine lo si impastava
nella forma di un idolo e veniva mangiato in un banchetto liturgico
durante celebrazioni che avevano componenti lunari come la fecondità e la
fertilità.
Certi riti si sono ripetuti nella forma anche se gli antichi
significati non sono più sentiti, rimane solo il ricordo nella memoria collettiva
e nella pratica rituale folcloristica.
Vedi le foto della preparazione del pane di ghiande
http://www.antichicammini.it/pagina.php?voce=sperimentazione
Fonti:
"Geofagia in Sardegna" di Lello Fadda
Un grazie di cuore a Paolo di Ozieri che ci ha scritto in merito al
Pan'ispeli. La tua segnalazione ci ha fatto scoprire qualcosa di più sulle
nostre tradizioni.
http://www.webalice.it/ilquintomoro. -
Gratia.
User deleted
Alghero al Salone Internazionale del Turismo di Catalogna
ALGHERO - Apre a Barcellona il Sitc e l'Assessorato al Turismo di Alghero partecipa alla fiera con uno spazio all'interno dello stand allestito dalla Regione Sardegna. La manifestazione, che promuove le destinazioni turistiche di tutto il mondo, e' diventata ormai un appuntamento immancabile per Alghero, che presenta la sua offerta ai catalani, da sempre interessati alla Riviera del Corallo, oltre che per l'offerta turistica in se, anche per i profondi legami culturali che legano Alghero e la Catalogna. La novità di quest'anno è la partecipazione della Regione Sardegna, che, in ragione dei collegamenti aerei con Girona, da Alghero e Cagliari, intende sviluppare una forte azione di promozione in Catalogna. Questa mattina l'offerta turistica della nostra isola e' stata presentata ufficialmente ai giornalisti e gli operatori turistici in una conferenza stampa a cui hanno partecipato, oltre all'assessore Regionale al Turismo Luisanna Depau, l'assessore Comunale Antonio Costantino, il Presidente della Sogeaal Ignazio Marinaro, il Presidente dell'Aeroporto di Cagliari Giorgio Orrù ed il rappresentante di Ryanair per il mercato spagnolo, Catriona Beggan. Dopo l'apertura della Depau, che ha introdotto la proposta turistica della Sardegna, partendo dalla storia e dalla cultura isolana, e' stata la volta di Antonio Costantino, che ha sottolineato la catalanità di Alghero ed ha ricordato il lungo periodo della dominazione aragonese ed i suoi impliciti risvolti culturali. L'assessore, dopo aver evidenziato l'importanza per la nostra città del collegamento aereo con Barcellona, ha accennato alla teoria di Frau che individua la Sardegna nell'antica Atlantide ed il nostro popolo in un popolo di navigatori, anticipando così al pubblico la prossima realizzazione della regata Alghero-Barcellona-Alghero che si terrà dal 28 Giugno al 10 Luglio. Per l'occasione verrà allestito, presso il porto di Barcellona, uno stand che promuoverà Alghero per tutta la durata della manifestazione. In conclusione, l'intervento del Presidente Sogeaal Ignazio Marinaro, che ha evidenziato il fatto che nei tre anni e mezzo di vita del volo Alghero-Girona, (il collegamento e' partito nel Febbraio 2004), gli aerei viaggino sempre all'80percento della loro capacità, trasportando più di centomila passeggeri ogni anno.
http://www.alguer.it/notizie/alghero/11701...ismo_catalogna/
. -
Gratia.
User deleted
Ricognizione nel Dorghalese: Prima parte
http://www.businessportal24.com/it/Ricogni...ima_174941.html
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Edited by Gratia - 22/4/2007, 07:42.