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    Il riso sardonico

    Scritto da Junfan
    giovedì 19 luglio 2007

    Antoine-Claude Pasquin (1789-1847), noto con lo pseudonimo di Valery, francese, classicista e romantico, scrisse "Il Viaggio in Sardegna" con l'intento di costituire una sorta di guida, un “Indicatore” che, analogamente alla sua opera più nota, "Voyages historiques et littéraires en Italie, pendant les anneés 1826, 1827 et 1828, ou l’Indicateur italien", avrebbe dovuto accompagnare i turisti nella visita di quella terra quasi sconosciuta che era allora l’Isola, consentendo inoltre l’iniziazione di un pubblico più vasto all’originalità della sua letteratura, alle diversità di lingua e di costumi.

    Leggiamo cosa scrive relativamente al famoso "riso sardonico".....



    L’abbondanza di ranunculus sceleratus nelle vallate di Fordongianus riporta alla ribalta la questione del riso sardonico o della smorfia.
    Secondo un’antica tradizione, la contrazione dei muscoli facciali veniva provocata dall’ingestione di una certa pianta ed era seguita da contorsioni del tutto involontarie che diedero luogo all’espressione «ridere contro voglia» e, di conseguenza, fu usato come sinonimo di ipocrisia o scettica risata di scherno.

    Un medico che viveva in città, la cui conoscenza della botanica, acquisita presso un’università straniera, e la grande esperienza dell’Isola, gli conferivano molta autorevolezza, mi informò che esistono due piante: una, che è qualcosa di simile al prezzemolo selvatico, nota come aethusa cynaprium; l’altra, il ranunculus sceleratus, o ranuncolo dalle foglie a forma di sedano, da molti ritenuta una specie inferiore.
    Queste piante crescono in abbondanza in luoghi paludosi e spesso vengono confuse con altre commestibili. Se vengono ingerite, gli effetti che causano sono la nausea, il vomito e le vertigini, seguiti non soltanto da una contrazione dei nervi del viso, ma anche di altre parti del corpo. I rimedi cui il citato medico ricorreva in tali evenienze erano gli emetici, l’olio d’oliva, i salassi, la dieta assoluta e l’acqua zuccherata.

    Il capitano Smyth così annota: «Nelle mie frequenti indagini sull’argomento, riscontrai che era molto diffusa l’opinione della sua esistenza e che il risus sardonicus era un termine d’uso comune. Da diverse persone la pianta mi fu
    descritta come un’erbaccia parassita che cresce sulle sponde dei ruscelletti fra le piante acquatiche e che, a Terranova, viene chiamata djarra mentre a Tempio cohone. Un agricoltore di Alghero mi disse che era pericolosissimo mangiare i crescioni d’acqua perché il mortale parassita aderisce strettamente alle foglie ed a ragione di ciò mi consigliò di ordinare ai miei barcaioli di buttar via alcuni begli esemplari che avevano appena colti.
    Comunque, dal momento che non riuscii a procurarmene uno in alcuna di quelle località, né ad ottenere una qualche attendibile informazione sull’argomento, debbo dedurre che, o in quelle zone l’erba non è stata riconosciuta dagli studiosi moderni, oppure che tutta la faccenda sia da ascrivere ad una leggenda popolare che non merita credibilità maggiore di quella delle fonti magiche ecc.».

    Vediamo ora in quale misura queste affermazioni siano confermate dagli autori antichi.
    Plinio (1) parla di quattro specie di ranuncolo, la seconda delle quali si identifica nel summenzionato sceleratus e nel sedano selvatico, o melissophyllon, il nostro aethusa cynaprium, che egli afferma essere «decisamente da bandire in Sardegna per le sue proprietà venefiche». Dioscoride (2) afferma che «quando esso viene ingerito, fa perdere i sensi e produce uno strano spasimo, così che sembra veramente che coloro che lo hanno mangiato ridano di continuo e da qui deriva, perciò, l’espressione del “riso sardonico”. In caso di spasmi, occorre somministrare al paziente miele ed acqua, fargli bere una grande quantità di latte, praticare bagni caldi a base di olio ed acqua, frizioni, unzioni ed ogni altro genere di rimedi».
    Andrés de Laguna, dibattendo l’argomento in un brano della sua opera, Sobre Dioscórides Amazarbeo (dedicato, non a caso, all’Imperatrice del Cielo, la Vergine degli Abbandonati, «a la Emperatriz del Cielo, la Virgen de los desamparados»), consiglia di trattare il caso in modo simile a qualsiasi altro spasmo, soltanto che è necessario l’impiego di calore. Il rimedio suggerito, per certi versi, è anche divertente: «Tiénese pues en este caso por remedio excelente la borrachez; y así convién emborrachar los pacientes, dándoles a bever vino dulce en gran cantidad para que duerman muy largo tiempo», «In questo caso l’ubriachezza costituisce un rimedio eccellente e perciò conviene
    ubriacare i pazienti, dando loro da bere gran quantità di vino dolce cosicché dormano a lungo».
    Egli consiglia inoltre impacchi caldi di vino e di erbe varie applicati, in particolare, sulla colonna vertebrale e sul collo.
    Solino nel Polyhistor (3) fa una descrizione analoga degli effetti di questa pianta.

    L’espressione proverbiale del “riso sardonico” è assai antica.
    La usa anche Omero (4) e su questo punto i commentatori si sono cimentati in una lunga dissertazione, attribuendone l’origine alla tradizione dell’accabadura (5), un argomento trattato in altro punto.
    Per ulteriori delucidazioni il lettore viene rinviato a Strabone, Platone (6), Cicerone, Virgilio, Polibio, Plutarco, Luciano e Xenodoto i quali tutti usano l’espressione nel medesimo senso.
    Le parole di Pausania sono forse sufficientemente interessanti da meritare una completa citazione: «L’Isola è inoltre indenne da ogni specie di erbe velenose e letali, ad eccezione di una che assomiglia al prezzemolo la quale, si dice, faccia morire ridendo coloro che la mangiano. Da questo particolare, Omero per primo, successivamente gli altri, definiscono sardonico il riso che nasconde una malattia mortale. Quest’erba cresce per lo più in vicinanza di ruscelli e tuttavia non trasmette all’acqua la sua potenza venefica».
    Xenodoto, citando il proverbio (7), allude ad una frase di Eschilo la quale è stata interpretata in maniera analoga al brano di Omero con riferimento alla accabadura ed anche Andrea Scotto ha formulato dotte osservazioni sull’argomento nella sua edizione di Xenodoto (8).

    Quasi tutti i botanici si soffermano sul sapore am aro della pianta del ranuncolo, specialmente dello sceleratus, e dai summenzionati accreditati autori risulta evidente che le sue qualità peculiari fossero ben note agli antichi, così come lo sono agli attuali abitanti dell’Isola. L’uso della pianta, come dimostrato dalla moderna farmacopea, conferma
    pienamente la leggenda e il proverbio, ma con questa differenza: invece che dannosa, viene ora considerata un’erba medicinale di grande utilità.


    1. Plinio, lib. XXV, cap. 109.
    2. Dioscoride, lib. VI, cap. 14.
    3. Solino, Polyhistor, cap. IV.
    4. Omero, Odissea, XX, v. 301.
    5. Si dice che nei tempi antichi fosse usanza dei figli uccidere i genitori una volta diventati inabili per età o per altre cause. Gli veniva sfracellato il cranio con dei grossi bastoni ed i loro corpi venivano gettati da un precipizio in onore di Saturno. Da qui il termine accabadura dallo spagnolo acabar, finire, uccidere (N.d.T.).
    6. Platone, lib. I; Cicerone, Epistula ad Familiares, lib. VII; Epistula XXV ad Fabium; Virgilio, Egloghe, VII, v. 41; Virgilio, Eneide, I, v. 213; Polibio, lib. XVII, cap. 7; Plutarco, Vita di Caio Gracco, cap. 12 e in Saggi sulle dottrine di Epicuro; Luciano, Lucius sive Asinus, cap. 23; Xenodoto, Centuria, v. 85; Pausania, lib. X, cap. 17.
    7. Xenodoto, Centuria, v. 85.
    8. A. Scotto, Anversa, 1611, p. 147.

    http://www.contusu.it/index.php?option=com...ask=view&id=427
     
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