UED. Di Giustino Rovata

romanzo storico dell'età del bronzo

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  1. giustinorovata
     
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    Facciamola questa prova, e iniziamo con "UED". Che onore per me :P :D :blink:.
    "UED" racconta la biografia di un genio, Ued appunto, vissuto intorno al 3300 a. C. che, nato e cresciuto in un villaggio situato nelle vicinanze di Arbus (CA), finirà per inventare tutto ciò che c'era allora da inventare perchè avesse inizio la Storia: l'aratro, la ruota, la metallurgia. Ancora giovane si trasferirà in Egitto, dove insieme al primo faraone Menes darà inizio alla civiltà egiziana, si trasferirà poi in Mesopotamia dove sarà essenziale per la fondazione della civiltà sumerica. L'idea è nata dal fatto che la Storiografia ufficiale fa risalire, sia le varie scoperte che l'inizio delle tre grandi civiltà: quella egiziana, quella sumerica e quella della Valle dell'Indo, al periodo intorno la metà del quarto millennio a.C. perchè è a far data da quel periodo, dopo l'avvento della scrittura, che si hanno documentazioni certe. Questa biografia non è altro che la traduzione di certi geroglifici trovati nelle pareti di una fantomatica tomba: la tomba di Ued che io ho trovato casualmente nelle campagne del mio paese. Oggi vi invierò il prologo tutto intero, sono più delle due pagine che propone Leo, ma per dare un senso compiuto penso che che sia meglio così. Abbiate pazienza, vi prometto che in seguito saranno non più di due o tre pagine per volta. Saludi e trigu a totusu. :salute:




    Giuseppe Pusceddu








    UED

    ( Romanzo storico)





























    In copertina: “L’origine dei metalli”, scultura muraria di Efisio Pisanu, di proprietà del Museo del Coltello Sardo di Arbus ( Ca )





























    INDICE



    Pag. 9 Prologo


    “ 23 Albesé


    “ 37 Naiza


    “ 59 Tennow


    “ 93 Babai


    “ 121 Zeno


    “ 147 Menes


    “ 179 Teste Nere

    “ 203 Cheos-fref





























    A Mario, uno degli ultimi grandi fabbri della Storia





























    PROLOGO



    ( Arbus, Giugno 1996 ).
    Ciò che vi narrerò ha avuto inizio 5500 anni fa circa.
    Badate bene, si tratta di un fatto storico e non di una leggenda, come possono far pensare tempi così remoti.
    Storia, perché é quanto ha desunto il celebre egittologo tedesco Eugene Faulkmann dai geroglifici ritrovati sulle pareti della cosidetta "Tomba di Ued" negli scavi di Arbus.
    Il sito archeologico, che io ho scoperto nel 1992, si trova a est della cittadina a ridosso della vecchia strada che conduce al borgo minerario di Ingurtosu, quasi di fronte a un picco calcareo di forme maestose, seppure di ridotte dimensioni, chiamato "Sa rocca de su casteddu", perché guardandolo fa pensare a un castello medievale.
    L'importanza dell'antico villaggio di Albesé e specialmente della "Tomba di Ued" é ormai nota a tutti, essa ha fatto luce, più di ogni altro reperto archeologico, sul periodo finale del neolitico e sull'inizio dell'età del bronzo.
    Le ricerche, essendo la scoperta recente, non sono ancora ultimate e gli studiosi pensano che la "fonte storica" di Albesé sia ancora lontana dall'essersi esaurita.
    La scoperta dei resti dell'antico insediamento, come la maggior parte dei grandi ritrovamenti archeologici, é avvenuta casualmente e merita di essere raccontata seppure per sommi capi.
    Ai primi di febbraio del 1992, di domenica, avendo deciso di trascorrere una mattinata in campagna, mi recai con uno dei miei fratelli, Franco, nell'ovile della famiglia L. che si trova quasi dirimpetto a "Sa rocca".
    Mio fratello, accanito cacciatore, era abituale compagno, in questo suo passatempo, di Paolo, il secondo dei fratelli L. e aveva intenzione, quella mattina, di fare con lui una battuta nella zona ricca di selvaggina.
    Quando giungemmo all'ovile la mungitura delle capre non era ancora ultimata e si dovette attendere che Paolo portasse a termine i suoi doveri.
    Noi si era lì accanto ai pastori che mungevano chini sul posteriore delle capre e si parlava del più e del meno, anche loro partecipavano alla discussione senza interrompere il lavoro.
    Non ricordo come fu che si arrivò a parlare di nuraghi, Sergio, il più giovane dei fratelli L., senza nemmeno sollevare la testa a un tratto disse: - E perché, ad Arbus, non ci sono i nuraghi? -
    - Ci sono i nuraghi? Dove sono? - chiesi io con meraviglia esagerata dato che l'argomento non mi attirava più di tanto.
    Sergio, restando chino, sollevando appena la testa: - lì! - e indicò col capo innanzi a lui verso la mia direzione.
    Mi voltai e vidi che dietro di me c'era un campo di grano appena germogliato e più lontano, oltre il campo, una collinetta insignificante e incolta.
    - Dove? - Chiesi nuovamente, cercando di apparire interessato.
    Sergio si rizzò e mi indicò con la mano la piccola collina che avevo notato poco prima.
    - é lì - spiegò - dov'é quel rialzo di lentischio -
    Dalla mia postazione non si notava alcun nuraghe, ma dissi lo stesso: - Però! Dopo voglio andare a vederlo -
    Sapevo che non avrei seguito i due cacciatori alla battuta, e forse avevo trovato il modo di rendere più interessante la passeggiata che mi ripromettevo di fare.
    Verso le nove, finite le operazioni della mungitura, Paolo L. e mio fratello andarono via con i fucili a tracolla, io rimasi nell'ovile con Sergio.
    La storia mi aveva appassionato da sempre, ma in maniera affrettata, per approfondire la filosofia che ispira gli eventi e il contesto che li contengono, occorre una disciplina e un rigore intellettuali che non avevo, data la superficialità della mia cultura, infatti l'archeologia non era mai stata in cima ai miei interessi, ma tant'é, dovevo trascorrere la mattinata, e anche un nuraghe poco probabile poteva contribuire a stimolare la mia curiosità.
    - Vado a vedere il nuraghe, vieni anche tu? - Chiesi a Sergio che attizzava il fuoco nel camino.
    - Ma si, vengo anch'io - fa lui - tanto qui fino a mezzogiorno che passa la macchina del latte c'è solo da annoiarsi -
    Ci avviammo, lui davanti e io subito appresso.
    - Non hanno fatto delle ricerche? - Chiesi per rompere il silenzio che accompagnava i nostri passi.
    - Macché! - Fece il pastore - ogni tanto viene qualche tombarolo a scavare, hanno trovato anche delle monete antiche, dicono, ma di ricerche vere e proprie non ne hanno mai fatto -
    - Com'é che non lavorate il terreno di quella collina? - Domandai
    - perché é tutta sassi, sassi enormi e non ci fa niente! - Fu la risposta laconica.
    Intanto si era giunti alla fine del campo, un muretto a secco lo separava dalla collina, superatolo agevolmente ci ritrovammo in un intrico di macchia mediterranea della più varia, mi colpì l'altezza della vegetazione inferiore al normale.
    Sergio si diresse con sicurezza verso l'apogeo della collinetta: un cocuzzolo appena accennato.
    - Vedi, queste sono le mura di cinta - disse la guida mostrandomi alcuni massi di granito rotondeggianti che affioravano dal terreno semi nascosti dalla vegetazione.
    Io mugugnai per accettazione, arrancando e iniziando ad ansimare per la fatica.
    Percorsi cento metri, forse meno, ci ritrovammo sul cocuzzolo: una decina di massi, arrotondati dalle intemperie, spuntavano sparsi qua e là, fra essi arbusti di cisto bassi e radi li facevano assomigliare a gigantesche nuche pelate.
    Formavano, questi massi, una piattaforma di ottanta metri quadri circa, da cui si poteva osservare l'intera collina e i campi circostanti.

    - Qui, nel periodo giusto é pieno di porcini e ovuli! - Disse Sergio riprendendo
    fiato. - Ecco vedi? - continuò indicando la collina che degradava dolcemente verso il nord - quei massi, vedi come sono allineati? Non sono certo muretti a secco, sono troppo grossi, questi qui poi? - Indicò un'altra fila di massi enormi più vicini posti a cerchio attorno a noi.
    - Questi, caro Giustino - proseguì Sergio accalorandosi un po' - non sono certo lì per caso, qualcuno li ha disposti in quel modo!
    Dai retta a me, qui sotto c'è un nuraghe, di sicuro c'è un nuraghe! -
    Tacque e mi guardò con aria interrogativa.
    Forse prima, all'ovile, aveva frainteso il mio finto interessamento e immaginando in me chissà quale competenza ora aspettava la mia opinione con rispettosa attesa, tanto valeva stare al gioco che un po' mi divertiva.
    Con fare serioso ispezionai l'ntera collina spostandomi lentamente lungo il perimetro della piattaforma, la guida, accanto, pendeva dai corrugamenti della mia fronte.
    Questo esame durò alcuni minuti; minuti importanti.
    Effettivamente, come aveva osservato il mio accompagnatore, gli enormi massi che affioravano appena dal terreno segnavano delle linee geometriche: diritte e ortogonali quelle più lontane, di forma circolare quelle più vicine, troppo regolari per pensare a una casualità naturale.
    Però qualcosa di strano ed inspiegabile accadde in quei brevi attimi in me.
    Guardare quei sassi con sempre meno ostentata e più sincera ammirazione e subirne il fascino irresistibile fu questione di un momento, descrivervi quale fu la ridda di pensieri e sensazioni che mi travolse é impossibile.
    Quei massi consunti dal tempo e dalle intemperie, quasi colpiti dal mio sguardo indagatore si scossero dal torpore cui erano stati costretti per secoli, si volsero stancamente verso di me all'unisono, un lampo di vita li illuminò, ammiccando sempre più freneticamente invitavano ad avvicinarmi a loro, borbottii, parole, ora distinte, mi dicevano del loro desiderio di raccontarmi quanto avevano visto con i loro occhi di pietra nei secoli passati fin dal tempo dei tempi, mi avrebbero raccontato, dicevano, della vita, del lavoro, dell'amore e della morte.
    Sembrava volessero impietosire per attirare su di essi la mia attenzione, ma non fu pietà ciò che nacque in me in quel momento, fu ammirazione smisurata e attrazione senza scampo.
    - Cosa ne pensi? - La voce stridula di Sergio fu un boato nel mio cervello, mi infastidì alquanto, ma ebbe il potere di riportarmi alla realtà.
    Avevo ispezionato ormai tutta la collina.
    - Interessante, davvero interessante! - Risposi sforzandomi di apparire normale.
    - é proprio come dici tu, qui sotto c'è qualcosa, forse un villaggio nuragico, hai mai notato che in quel pianoro laggiù il terreno é quasi brullo come che in quel tratto manchi del tutto la terra e ci sia solo della roccia? -
    - é roccia! Infatti abbiamo provato ad ararlo, ma non é stato possibile, troppo duro - rispose il pastore.
    - Come é possibile? - Feci - Una roccia così piatta che sembra un biliardo non esiste in natura, viene da pensare che si tratti di un piazzale lastricato dall'uomo -
    - Questo non lo so - chiuse Sergio - io so solo che quel pezzo di terreno non serve a niente -
    Intanto io continuavo a girare lo sguardo intorno nella collina, sebbene mi sforzassi di padroneggiare i sentimenti al mio accompagnatore dovevo apparire un po' trasognato, quando gli dissi che volevo fare un giro di perlustrazione fra quei massi inventò una scusa lì per lì e se ne tornò all'ovile lasciandomi solo.
    Ebbene si, mi ero innamorato di quel luogo.
    Certo sotto i miei piedi c'era qualcosa di antico fatto dall'uomo; mi meravigliava che mai nessuno avesse pensato di scoprire il mistero di quelle pietre nascoste tra gli arbusti.
    Come era mai possibile che la curiosità che aveva preso me per quei posti non aveva fatto altrettanto con nessun'altra persona prima di allora?
    Lasciai la cima della collina e arrivai presso la prima fila di massi, quelli disposti lungo una linea circolare; semi nascosti dagli arbusti, prima, questi ora si lasciavano ammirare generosamente da me, erano di forma rettangolare, le dimensioni varie, la parte evidente si presentava arrotondata intorno, probabilmente abrasa dalle intemperie, molto vicini gli uni agli altri, facevano pensare davvero a qualcosa di simile a un grande nuraghe.
    Percorsi la pista segnata dai massi fino a completare il giro.
    Le grosse pietre erano accostate una all'altra tranne che in alcuni punti, forse qualcuna era mancante oppure quegli spazi vuoti indicavano l'esistenza di un ingresso.
    Il giungere a queste deduzioni, seppure semplici, creava in me un'eccitazione straordinaria, la mia curiosità andava velocemente ingigantendo.
    L'archeologia é come un un morbo del quale non solo non si riesce a guarire, ma una volta contagiati ci si aggrava sempre più, in quella mattina di febbraio non mi rendevo bene conto dei primi sintomi di questa entusiasmante malattia, avrei capito più tardi cosa spinge gli archeologi alla ricerca in tutte le parti del mondo, i collezionisti di reperti a sfidare le leggi rischiando pesantissime sanzioni, gli stati a investire tanti denari ed energie per gli studi delle proprie fonti storiche.
    Lasciai la cinta del cocuzzolo e mi diressi verso nord, ai piedi della collina dov'era la spianata brulla che aveva attirato la mia attenzione poco prima.
    Era un piano rettangolare col lato maggiore di trenta metri e quello minore di venti circa; pochi e bassi cisti erano l'arredo del tappetto d'erba, anch'essa rada e malnutrita; la planarità quasi perfetta e la regolarità dei suoi contorni mi lasciavano perplesso; forse era stata un'aia adibita alla trebbiatura, pensai lì per lì, o forse...forse qualcosa d'altro, chissà.
    Il tarlo dell'archeologia stava iniziando la sua opera di rodimento.
    Tornai all'ovile dopo un paio d'ore di perlustrazione nella collina, l'agitazione per l'emozione del primo impatto col mio "Nuraghe" si era attenuata alquanto, ora, nella lucidità riconquistata, mi ponevo tutta una serie di domande che il sopralluogo aveva ispirate, il trovarne le risposte fu il programma per il mio immediato futuro.
    A Guspini, un'amena cittadina del piano, vicina ad Arbus, c'era e c'è tuttora un'associazione culturale archeologica che, riunendo gli appassionati di questa disciplina, si prefigge lo scopo di valorizzare i siti della zona.
    Niente di meglio per risolvere i miei problemi, pensai e mi recai nella sede dell'Arkeòs, questo il nome dell'associazione, dove avevo fissato un appuntamento col suo presidente.
    - No, non ho intenzione di fare la tessera - dissi rispondendo alla prima precisa domanda che mi pose il presidente signor Cosseddu dopo le presentazioni.
    Ero lì, spiegai, perché... e giù un fiume inarrestabile di parole intorno al nuraghe di Arbus; era il caso secondo me, conclusi, di fare delle ricerche perché su quella collina c'era sicuramente qualcosa di interessante.
    Oramai il virus dell'archeologia aveva distrutto del tutto il mio sistema immunitario.
    Intanto che parlavo accalorandomi sempre più, il signor Cosseddu mi scrutava con uno sguardo che traboccava tenerezza: - Beata ingenuità! Beata ignoranza! - Sibilava quello sguardo faceto.
    - Sappiamo già - mi disse - dei nuraghi e degli altri siti di Arbus e ho paura di doverti deludere: la Sardegna é piena di nuraghi, non si potrebbe, neanche a volerlo, fare delle ricerche per ogni pietra che si trova in giro; caro mio, le ricerche costano e di soldi non ce ne sono tanti, quindi: niente soldi, niente ricerche, é normale, no? -
    - Ma in questo nuraghe dicono siano state rinvenute delle monete di epoca romana! - Azzardai deciso a non mollare tanto facilmente.
    - Si, le monete! - Fece il mio interlocutore con sufficienza - é pieno anche di monete in giro, tutti ne abbiamo in casa, chi più chi meno, ma difficilmente sono pezzi di grande valore, le solite cose: molto Diocleziano e Traiano, qualche Augusto, che già quelle valgono qualcosa, pochissimo d'altro -
    - Quindi, secondo lei non é il caso di fare un sopralluogo? - Chiesi sempre più a disagio.
    - Sarebbe tempo perso - sentenziò l'eminente - se avessimo delle possibilità faremmo delle ricerche qui a Guspini, dove si trovano dei siti davvero interessanti, é inutile che veniamo su ad Arbus per vedere questa cosa, sappiamo già di che si tratta, dai retta a me, sarebbe solo una perdita di tempo! -
    Lasciai il bugigattolo buio, pomposamente chiamato sede di Arkeòs, e il signor Cosseddu molto deluso.
    Ma come! A me sembrava che ciò che avevo visto sulla collina era importantissimo, tutto lo lasciava pensare: la posizione, la prima cinta di mura, le mura perimetrali, la spianata così strana che poteva essere persino un tempio e le monete poi...!
    Niente, tutta paccottiglia, roba che il mondo ne era pieno.
    Evidentemente demordere non é verbo del mio vocabolario genetico, tornai infatti spesso all'ovile della famiglia L. e ogni volta facevo una capatina sulla collina.
    I pastori inizialmente considerarono questo mio appassionarmi a quei posti la stranezza di uno che ha la testa non proprio a posto, ma tolleravano il mio comportamento, in seguito si instaurò anche un rapporto di buona amicizia, guardavano le mie visite con rispettosa curiosità e mi prestavano, all'occorrenza, quando un piccone, quando un palanchino e quant'altro mi serviva per giocare a fare l'archeologo.
    Bastò estirpare qualche cisto e ripulire dal terriccio due o tre massi della prima cinta di mura, sino a una profondità di cinquanta sessanta centimetri, per avere la certezza che quelli erano i resti di un nuraghe, e che doveva essere imponente, perché il diametro era di ben quindici metri all'interno.
    Spinto dalla frenesia di chiarire i misteri di quel luogo e non disciplinato da alcuna nozione tecnica sull'archeologia, andavo saggiando ora qua, ora là, tra quelle pietre che mi intrigavano sempre più.
    Ed eccomi al pianoro.
    Quel tratto in piano doveva pur finire da qualche parte, andavo pensando, perciò mi ripromisi di procedere alla pulizia di un lato del grande rettangolo fino ad individuarne il confine.
    Non ci volle neanche mezza giornata di lavoro col badile, una zappa da orto e un piccone per scoprire, dove la vegetazione iniziava a farsi più fitta, che a una profondità di trenta centimetri c'era la fine di una piattaforma, segnata da uno spigolo cosi vivo e con la sfaccettatura cosi perfetta da sembrare un modernissimo manufatto in calcestruzzo.
    Era metà giugno, i campi intorno alla collina, dismessi gli abiti preziosi, si illudevano che niente era successo emanando bagliori di stoppie.
    - Bisognerebbe - dissi ai pastori quel giorno tornando dalla mia collina - poter disboscare per vedere meglio cosa c'è sotto, magari se ne potrebbero fare delle fascine.
    - Non é possibile! - Rispose uno dei pastori - per tagliare la macchia mediterranea occorre il permesso della vigilanza forestale, noi l'abbiamo chiesto più volte e ce l'hanno sempre negato, perché quella collina con tutti quei massi non si può coltivare e quindi, dicono loro, non c'è nessuna utilità a disboscarla; fare legna é diventato praticamente impossibile per via di questi permessi, é un'assurdità, non permettono di pulire il sottobosco!
    Capita che scoppia un incendio e si porta via tutto, alberi e sottobosco; gli incendi, oramai lo sappiamo bene, o qui o la é raro l'anno che non ci sono; e danno la colpa a noi pastori ! -
    L'incendio, già!
    E incendio fu, un giorno dell'ultima decina di agosto in cui il maestrale la faceva da padrone.
    Per autocombustione delle stoppie, dissero i pompieri; scoppiò all'improvviso nella zona della spianata e col forte vento si mangiò tre quarti della collina in meno di un'ora.
    All'arrivo dei pompieri, tempestivo, tutto era compiuto; fu spento il poco che restava da spegnere: qualche focolaio qua e là, e i moncherini fumanti e neri di quelli che erano stati fino a poc'anzi gli arbusti più sviluppati.
    Dell'incendio alla mia collina fui informato casualmente due giorni dopo, mi precipitai sul posto non senza qualche preoccupazione, pensavo infatti che, privato della vegetazione il terreno, qualcuno avesse potuto notare i pochi scavi che avevo fatto fino ad allora, e in quel caso avrei passato guai seri, essendo l'attività che avevo svolto in quel posto vietata e perseguita dalla legge.
    Lo spettacolo che si offrì ai miei occhi era davvero deprimente: la collina bruciata quasi per intero mi ricordava uno di quei paesaggi lunari che televisione e riviste ci hanno resi familiari, il grigio delle ceneri posate al suolo e il nero dei monconi carbonizzati creavano una scena spettrale.
    Le pietre, le mie pietre sembravano indifferenti a ciò che era successo attorno a loro, apparivano anzi felici di potersi crogiolare ben bene al sole e di farsi ammirare in tutta la loro maestosità.
    Non mi avventurai sulla collina, c'era ancora troppa cenere, il controllo accurato della situazione l'avrei fatto nei giorni a venire.
    Nessuno aveva fatto caso agli scavi eseguiti nei mesi precedenti, mi fu assicurato dai pastori, probabilmente li avevano scambiati per tane di animali selvatici o qualcosa del genere, del resto non era facile notarli, ricoperti com'erano di ceneri e carbone; ciò mi tranquillizzò.
    Piovve nei giorni successivi, piovve tanto che erano anni che non si vedeva tanta pioggia a fine agosto, l'acqua, che purifica, lavò via il manto deprimente della collina bruciata e la lasciò nuda.
    Immediatamente dopo la grande pioggia il lavoro mi concesse un breve periodo di libertà che dedicai alle ricerche fra le mie pietre; l'acqua infatti aveva rammollito il terreno, che, libero della vegetazione, poteva essere rimosso con facilità.
    Decisi, per prima cosa, di ripulire la piattaforma del pianoro, armato dei soliti attrezzi e di una carriola iniziai le operazioni: ne liberai senza troppa fatica i contorni scavandole un canale attorno, due giornate di lavoro e un rettangolo perfetto era disegnato dalla canaletta, era largo ventitre metri e lungo trentadue.
    Il terzo giorno lo dedicai a ripulirne la superficie, un lavoro semplicissimo: il terriccio che la ricopriva era fradicio; il suo spessore variava da pochi centimetri fino a trenta al massimo; in un giorno finii il lavoro lasciando la piattaforma libera di ogni più piccola traccia di terra, fu appunto verso la fine di quella giornata di venerdì, il 4 settembre del 1992, che accadde l'inimmaginabile.
    Trasportando con la carriola una grossa pietra che pesava oltre trenta chili per trasferirla in un punto di quei pressi, dove avevo deciso di ammucchiare il pietrame che mano a mano mi capitava, durante questo trasporto la carriola si rovesciò e il masso di granito finì sulla piattaforma con un rumore sordo e amplificato come il rullo di un grosso tamburo.
    Capii immediatamente di cosa si trattava e intuii all'istante l'importanza di questa novità, anche se ero ben lontano dall'immaginare che la realtà avrebbe superato ogni più grandiosa supposizione.
    Sollevai con grande fatica la grossa pietra finché potei e la lasciai cadere, volevo essere sicuro di non aver sognato, la piattaforma, ormai libera della terra che la ricopriva e la circondava, trasformò il prevedibile tonfo del grande sasso nel suono melodioso di un gigantesco gong.
    Non avevo più dubbi: i miei piedi poggiavano su un solaio di un ambiente vuoto sottostante.
    Il sangue prese a pulsarmi nella testa che sembrava dovesse scoppiare da un momento all'altro, le gambe tremavano, mi dovetti sedere sul bordo della carriola e restai lì con lo sguardo allucinato incapace di muovermi per molti minuti.
    - A che punto sono le ricerche? - Mi chiese Sergio L. a mò di sfottò mentre riponevo gli attrezzi.
    - Nessuna novità! - Risposi con la massima noncuranza possibile, non volli rendere edotti i pastori della mia scoperta, temevo che con la prospettiva di vedersi le terre invase da estranei, come inevitabilmente sarebbe accaduto, i fratelli L. avrebbero potuto ostacolare le ricerche, pensavo meglio metterli di fronte al fatto compiuto.
    Ora veniva la parte più difficile di tutta l'operazione che era iniziata quella domenica di febbraio, gestire nel migliore dei modi questa fase era di estrema importanza, infatti si trattava di vincere l'ottusità della gente.
    Nessuno si sarebbe mosso senza la sicurezza di averne un tornaconto che poteva essere di varia natura: economico, di immagine o politico.
    Era scritto che questa storia dovesse finire bene per come si concatenarono perfettamente tutti gli avvenimenti che la riguardarono.
    Qualche tempo prima, lavorando in Cagliari, capitò di trovarmi con un conoscente a prendere un caffè al bar Torino sotto i portici di via Roma, questi, indicandomi un sessantenne baffuto seduto a un tavolino accanto mi disse: - Vedi, quello é il famoso professor Milia -
    - Chi, Milia l'archeologo? - chiesi incuriosito.
    - Proprio lui, é preside della facoltà di archeologia dell'università di Cagliari-
    - Lo so, lo so chi é Milia - dissi e osservai: - però, non sembra niente di eccezionale! -
    - Non sembra, ma quello ha un cervello così, tutti i giorni, dopo pranzo alla stessa ora, é qui a prendersi il caffè -
    Questo banale avvenimento mi tornò alla mente nel far ritorno a casa quella sera del quattro settembre; era più che logico, infatti a chi pensare dopo ciò che era avvenuto se non al professor Milia, il più grande archeologo italiano e forse europeo, il massimo conoscitore dell'archeologia sarda?
    Il giorno dopo, alle due e mezza stavo seduto ad un tavolino del bar Torino, ero in attesa del caffè che avevo ordinato quando un baffone bianco, vestito di un abito chiaro, il viso seminascosto da un panama dalla tesa enorme, si sedette al tavolino accanto al mio, era il professor Milia.
    Lo guardavo, quando i nostri sguardi si incrociarono accennò un sorriso.
    - Buona sera professore - dissi prendendo la palla al balzo - come sta? -
    Mi alzai e mi avvicinai a lui tendendo la mano.
    Egli guardò la mano e la strinse con diffidenza.
    - Non mi sembra di ricordare - disse - chi é lei, per caso un mio ex allievo? -
    - No, sono un appassionato di archeologia e un suo grande ammiratore - feci io, perché le adulazioni fanno sempre un buon effetto in chi le riceve - posso sedermi al suo tavolo? Sono venuto apposta dal mio paese per parlare con lei -
    - Faccia pure - disse l'illustre professore con un'amabilità affettata che tradiva un certo di disagio.
    Mi presentai e mi sedetti di fronte a lui.
    Il Milia mi ascoltò, dapprima distrattamente, poi sempre più interessato, alla fine la curiosità usciva da tutti i suoi pori, lo capivo, soffriva della mia stessa malattia.
    - Ma come, lei ha fatto degli scavi e delle ricerche senza l'autorizzazione? Lo sa che rischia la prigione? - Sbottò per darsi un tono quand'ebbi finito il resoconto.
    - Lo so, ma, a parte il fatto che non ho toccato nulla e ho solo tolto della terra da delle pietre che si trovano in un terreno privato, non ho trovato un modo migliore per sperare che qualcuno si interessi al nuraghe di Arbus - dissi io con un'aria dispiaciuta e la più umile possibile.
    Un cenno di assenso col capo mi fece capire che la simpatia del professore nei miei confronti andava aumentando.
    - Il suo racconto mi sembra molto interessante, cosa ne dice se ci trasferiamo nel mio studio? Là staremo più tranquilli -
    Era fatta.
    - Con piacere professore! - Il mio entusiasmo si tagliava a fette.
    Lo studio era costituito dall'attico di un palazzina incastonata tra due banche nel vicino largo Carlo Felice; libri erano accatastati per ogni dove in apparente disordine, mi vennero in mente certi studi notarili di qualche tempo fa, prima dell’informatica, superato un ampio salone, il professore mi introdusse in una piccola stanza, anche qui libri, negli scaffali a muro, sulla scrivania e persino sulle sedie, ne liberò una spostando i volumi e impilandoli su quelli di un'altra.
    - Si accomodi - disse con cortesia e andò a sedersi al lato opposto della scrivania.
    - Guardi - mi fece dopo un breve attimo di raccoglimento - le dico subito che la sua storia ha quasi dell'incredibile, innanzitutto, é proprio sicuro che questo solaio, dice lei, sia davvero in pietra e non in calcestruzzo? -
    - é granito, professore! - Risposi prontamente - ne sono certo perché ci ho dato un paio di picconate e posso assicurarle che si tratta proprio di granito -
    - Non doveva! - Singhiozzò il Milia sobbalzando, quasi che le picconate le avesse prese lui - non doveva! Avrà lasciato dei segni sulla lastra! -
    Mi sentii un verme e maledissi la mia ignoranza - Mi perdoni professore! - Dissi sinceramente mortificato.
    I dardi del suo sguardo si attenuarono rapidamente e la sua aria divenne nuovamente bonaria e disse: - Mi senta bene, io purtroppo non ho molto tempo, però il suo racconto mi incuriosisce enormemente e lei, non so perché, mi ispira fiducia, verrò a visionare il suo nuraghe, diciamo domenica mattina - un’occhiata al calendario sulla scrivania - accipicchia, é domani! Mi auguro che ne valga la pena, perché perdere del tempo con tutti gli impegni che ho sarebbe un delitto! -
    Rapidi accordi per l'ora e il luogo dove ritrovarsi l’indomani, quindi il commiato.
    Lasciai lo studio convinto che il più era ormai fatto, ma in me nutrivo una sorta di diffidenza nei confronti del professore, non già come persona, che si era mostrata squisita e disponibile, ma per la cultura che rappresentava, non é una novità, infatti, che l'ignoranza diffidi della cultura perché si sente disarmata nei suoi confronti; inoltre l'interessamento del Milia non mi appariva sufficiente a garantire il successo dei miei intenti; per ottenere la giusta attenzione occorreva coinvolgere l'opinione pubblica, era indispensabile quindi far intervenire la stampa e possibilmente anche la televisione.
    Un giornalista giovane e rampante, ecco cos'era necessario per la riuscita della operazione.
    Non ci crederete, ma la sorte amica mi poneva in condizione di risolvere anche questo problema.
    Antonio Micheli, che oggi tutti conoscono cronista affermato e di successo, anche grazie alla vicenda che vi sto narrando, era allora un giovane praticante, corrispondeva per alcune testate della penisola, per uno dei due principali quotidiani sardi e per un'emittente privata regionale.
    L'avevo conosciuto due anni prima in occasione dei festeggiamenti di Carnevale nel paese dove risiedo, era lì per un servizio televisivo su questa manifestazione e io, che facevo parte del comitato organizzatore della festa, venni delegato a seguire il cronista e fare gli onori di casa, si instaurò fra noi un rapporto di quasi amicizia.
    Qualche mese più tardi lo misi in condizione di fare un "colpo" di una certa importanza nell'ambito regionale: ero venuto a conoscenza, casualmente, di un fattaccio avvenuto nei dintorni di Cagliari, lo avvisai tempestivamente e lui fece la sua bella figura, mi ringraziò a Natale facendomi avere un presente a base di spumanti e zamponi.
    - Ah! Giustino di Marrubiu - mi disse al telefono quando ebbe focalizzato il suo interlocutore - che c'è di nuovo, un altra notizia importante? -
    - Una bomba Antonio! - Feci io - Dobbiamo vederci immediatamente, pensa che c'è di mezzo l'archeologo professor Milia! - Non aggiunsi molto d'altro, non dovevo al telefono, se volevo tenere in tensione la sua curiosità.
    Gli accordi per l’indomani, minuziosi, li prendemmo al tavolino di un bar a metà strada tra Cagliari e Oristano: l'avrei presentato al professore come un amico appassionato di archeologia, lui doveva seguire il sopralluogo dell'illustre scienziato, con un piccolo magnetofono nascosto avrebbe registrato le reazioni del Milia durante l'esame delle rovine, e solo alla fine, se era il caso si sarebbe manifestato qualificandosi come giornalista.
    Al mattino di domenica tutto come previsto.
    Il professore arrivò all'incontro con una puntualità cronometrica; saluti, presentazione del Micheli e via verso il mio nuraghe.
    I pastori quasi si infastidirono per la nostra intrusione mattutina, arrivammo che mungevano ancora; forse cominciavano ad averne noia della mia attività nei loro terreni, ma fecero buon viso a cattivo gioco e ci permisero di raggiungere la collina.
    Ci avviammo, io a far da guida, il professore con la sua valigetta e il giornalista a seguirmi silenziosi.
    La collina ci accolse vergognosa della sua nudità, ma la natura, premurosa, aveva già cominciato la sua opera di restauro con qualche rado filo d'erba.
    Giunti sul cocuzzolo, presentai al professore le mie pietre che facevano bella mostra di loro ordinate e pulite come un battaglione di soldati in parata.
    L'illustre luminare assentiva mentre io esponevo le mie deduzioni riguardo il nuraghe, ma tradiva una certa impazienza con lo sguardo fisso verso la spianata ben evidenziata dalla canaletta.
    Reprimendo l’entusiasmo non mi dilungai più di tanto e procedetti verso nord seguito dal giornalista e dal professore sempre più eccitato.
    Quando vi giungemmo l'archeologo percorse in lungo e in largo la piattaforma alcune volte con passo lento, lo sguardo fisso al suolo e la destra nervosa che lisciava il baffone bianco con l'indice e il pollice.
    - Dio Santo! Dio Santo! - Mormorò alfine aprendo la valigetta e traendone una piccozza e una scopetta.
    - Si tratta proprio di lastroni di granito! Ecco! Vede? Qui c'è la giunzione tra una lastra e l'altra! Vede? Qui il segno é evidente! - faceva, mentre grattava delicatamente con la piccozza e ripuliva il poco terriccio con la scopetta.
    Dopo altri esami lunghi e minuziosi, mi chiese di percuotere con una grossa pietra un punto ben preciso del pianoro, al suono amplificato che conseguì a questa operazione la sua eccitazione divenne orgasmo.
    - Ci troviamo davanti a qualcosa di veramente eccezionale! - Esclamò e continuò: - Sembrerebbe la base di una piramide; anche quello che lei chiama nuraghe non mi convince, c'è qualcosa di strano e mai visto prima, che ancora non riesco a capire da quel poco che si può notare -
    Parlò ancora.
    Mi sommerse con una valanga di parole sulle tecniche costruttive, le piante quadrate, circolari, rettangolari, le squadrature, i dimensionamenti, io pendevo dalle sue labbra anche se non capivo appieno tutto quanto andava esponendo.
    - Voleva incastrarmi ben bene! - Disse il professore quando il Micheli si qualificò
    - ha preparato tutto a puntino! Lei signor Rovata é un furbo di tre cotte! -
    Dal tono non capii se apprezzava la mia astuzia o se era risentito per la diffidenza dimostrata nei suoi confronti.
    - Ma - proseguì - la scoperta di questo posto, che io penso sia della massima importanza per l'archeologia, giustifica ampiamente la sua prudenza -
    Avesse saputo del magnetofono nascosto, non so se la sua reazione sarebbe stata altrettanto pacata.
    - A lei signor Micheli devo chiedere una cortesia - disse l'archeologo rivolto al giornalista - non riferisca di questo ritrovamento per almeno una settimana, mi deve dare il tempo di parlarne col soprintendente ai beni culturali e far predisporre un adeguato servizio di vigilanza sul posto; capisce bene che la divulgazione di una notizia simile susciterà un vespaio le cui dimensioni non si possono prevedere, le assicuro che nessun giornalista scriverà di questo fatto prima di lei e la prima intervista che rilascerò su questa scoperta, se si rivelerà così importante come penso, sarà sua -
    Ecco, questa é la cronaca dei fatti che hanno portato alla scoperta dei resti delle rovine di Albesé e della tomba di Ued.
    Il resto: lo scalpore sollevato, i primi lavori di scavo sulla torre principale, il rinvenimento della tomba coi suoi geroglifici, la mummia del geniale Ued, i resti dello scriba morto mentre era intento al suo lavoro, sorpreso dalla catastrofe, é noto a tutti, le cronache di questi anni appena scorsi hanno fatto conoscere a tutto il mondo il sito archeologico di Arbus.
    Non si contano più, oramai, i convegni che sono stati organizzati, con la partecipazione dei massimi studiosi del settore, per disquisire su questo argomento. I resti del villaggio di Albesé, come si sa , sono stati considerati, fin dalla scoperta, la più antica fonte storica dell'umanità.
    perché ho deciso di provare a scrivere la storia di Ued?
    Il professor Milia, per premiare la scoperta, mi promosse suo assistente personale per le ricerche nel sito di Albesé; ben altre persone, più istruite e competenti di me, avrebbero meritato un incarico così prestigioso, ma tant'é, é andata in questo modo e mi sono trovato nella condizione ideale per venire a conoscenza di tutti i segreti delle "mie pietre".
    Questa posizione privilegiata mi ha permesso di essere tra le prime persone al mondo a entrare nella “tomba di Ued”, qualifica impropria, infatti i piccoli vani che si trovano nei quattordici corridoi ortogonali a quello principale che conduce alla sala della mummia, fanno pensare a una sorta di tomba comune per i maggiorenti dell'antico villaggio di Albesé, vani questi mai utilizzati a causa dell'interruzione drammatica e improvvisa dei lavori di costruzione.
    I resti dello scriba che era intento al suo lavoro quando l'immensa ondata di fango, dal monte prospiciente, ha invaso la piana travolgendo e seppellendo ogni cosa, furono rinvenuti a metà del corridoio principale: qualche dente e un po' di polvere, poi gli attrezzi del mestiere: calami in rame e bronzo di vario diametro ben riposti negli astucci, piccole ciotole-mortaio per i colori, il contenitore dell'acqua e alcuni pestelli.
    In fondo al corridoio la tomba di Ued, come indica la scritta scolpita sopra lo stipite dell'ingresso al vano di cinque metri per cinque circa, dove al centro era posto il sarcofago contenente la mummia.
    Ogni superficie utilizzabile di questo locale, escluso il pavimento, é ricoperto di geroglifici minuscoli e fittissimi, che si riveleranno poi narrare l'affascinante storia di colui che doveva essere un genio del suo tempo.
    Ho avuto la possibilità di seguire passo passo i lavori di traduzione dei geroglifici da parte del celeberrimo professor Eugene Faulkmann ( a cui va il mio ringraziamento particolare per la gentile collaborazione ) e del suo gruppo, incaricati di questo compito dal Ministero Italiano dei Beni Culturali.
    La vicenda dei Cilici trapiantati in Sardegna e dell'uomo più rappresentativo di queste genti industriose mi ha affascinato fin dai primi brani tradotti e ora mi sto ripromettendo di raccontarla a voi non riuscendo ad immaginare, al momento, con quali risultati.
    Devo dire, a onor del vero, che in ciò che seguirà ci sarà ben poco di mio, perché ho intenzione di non fare altro che riportarvi fedelmente quanto tradotto dai geroglifici, d'altronde la storia come ce l'ha lasciata lo scriba della tomba di Ued é così particolareggiata e precisa, il suo stile espositivo così fresco e attuale, che aggiunte o commenti sarebbero potuti risultare inopportuni.
    Cosa ho imparato venendo a conoscenza della storia del geniale Ued?
    La prima considerazione che ho fatto é stata questa: a distanza di cinquanta secoli, in questa nostra vecchia Terra, il sole illumina ben poche novità.
     
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  2. creosoto
     
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    Mi hai fregato... per un'attimo la prima storia pensavo fosse una cronaca....
    Bella una e l'altra.....mi sa che hai la mano santa.
     
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  3. .machiavelli.
     
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    Io ancora non sono riuscito a tr :devil: ovare il tempo di leggere...ma l'ho stampato...
     
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  4. giustinorovata
     
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    Grazie dell'attenzione. Se il capo è d'accordo ne invierò un capitolo per volta a distanza di un tempo sufficiente a farvi leggere con calma. Spero che per qualcuno, almeno, :cry: la lettura risulti divertente. Saludi e trigu a totusu :salute:
     
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  5. creosoto
     
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    PRIMO
     
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    SRDN

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    Come ho già espresso per telefono... è molto bello.
    In particolare il capitolo in cui scopre il "nuraghe"....sei riuscito a descrivere perfettamente come mi sono sentito la mia "prima volta". :)
     
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  7. angiolo1958
     
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    Ciao, permettimi di fare un appunto su "s'accabbadora":
    in molti paesini era si un unica donna, ma, purtroppo, molto spesso per via soprattutto della miseria dilagante, la figura veniva vestita dalla più anziana o, per meglio dire, la più intraprendente della famiglia.
    Non tutte le famiglie potevano "permettersi" s'accabbadora, proprio per il debito che il suo intervento avrebbe generato.
    E' triste e quasi"berigungia" ( vergogna) parlare di questo, è stato per secoli tenuto in nobile segreto, e vorrei che tale rimanesse; insieme a molti comportamenti, usi e consuetudini fatte e non dette che ancora oggi siamo un popolo "diverso"
    :salute:
     
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  8. giustinorovata
     
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    Creosoto, avevo visto giusto che in te c'è una forte intellettualità. Ora so che la hai dal tuo DNA familiare. Tu hai detto che forse io ho una "mano santa" (nello scrivere), ti dico che la mano di tua sorella è più santa della mia, infatti io non so scavare nell'anima delle persone come lei dimostra di saper fare. Io ho preferito, nei miei racconti e nei miei due romanzi, lasciare a chi legge dare l'interpretazione che più gli aggrada, ma forse ho scelto questa strada di comodo perchè non ho la capacità di prendere per mano il lettore e condurlo nel profondo dei sentimenti che agitano i personaggi della Vita, come tua sorella ha dimostrato, in questa paginetta, di saper fare. Complimenti a lei (e un po' di invidia benevola). Voglio dire ad Angiolo che, per quello che ne so, la figura del "sa accabadora la trovo più correttamente descritta dalla sorella di Creo che da te :rolleyes: . Saludi e trigu a totusu. :salute: :salute: :salute:
     
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  9. .machiavelli.
     
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    Ecco qualcosa che ho trovato:

    S’ACCABADORA:
    Un tempo le pestilenze erano frequenti e durante le epidemie assumeva rilievo la figura dell’Accabadora, una donna ritenuta dotata di occulti poteri, che veniva chiamata presso i moribondi per affrettarne la fine. Circondata di mistero e reverenziale paura, si parlava di lei con reticenza, ma il suo ricordo è ancora vivo soprattutto nei paesi della Barbagia. Giunta al capezzale del morente per prima cosa ordinava che venissero portate via dalla stanza tutte le immagini e gli oggetti sacri e toglieva dal collo dell’agonizzante scapolari e medagliette di santi. Si pensava infatti che croci e simulacri impedissero all’anima di separarsi dal corpo. La donna quindi pronunciava misteriose formule e, qualora queste non sortissero effetto, poneva al collo del malato un giogo di aratro o di carro. Secondo alcune testimonianze, tra le pratiche compiute da questo sinistro personaggio vi sarebbe stata anche quella di mettere dei manufatti artigianali in legno, come pettini o gioghi di buoi, sotto il cuscino del moribondo e di battergli il petto o la nuca con “sa mazzucca”, una pesante mazza di legno.


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    Ciao da Zio Mack.
     
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    ENOCH

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    Salve
    Vi posto un collegamento suggestivo... :

    http://www.surbile.net/teca/articoli%20pdf...rea%20Satta.pdf
     
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  11. creosoto
     
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    Veramente impressionante. Ho letto il pdf, tra le deduzioni sul termine s'accabbadora. non capisco perchè non cita quello che a me viene più facile A-CABBU = A TESTA...
    ma io sono sassarese e non parlo che quello...
     
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    Io son arrivato a Zeno :D
     
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  14. .machiavelli.
     
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    Beato... :D , io ho i minuti contati, ma mi sto appassionando. ;)
     
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  15. giustinorovata
     
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    Grazie zio Mach, sei troppo buono :P :P Clicca sulla faccinaClicca sulla faccina. Sludi e trigu a totusu


     
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69 replies since 29/2/2008, 12:08   2706 views
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